VIII CONVEGNO AMARLUI – QUELLA GIOIA CONTAGIOSA

Giulia Paola Di Nicola – Attilio Danese


“Non c’è che una sola tristezza… quella di non essere santi”

Se un amico ci scrive una lettera, la leggiamo con attenzione, tanto più se si tratta del Papa, che si è impegnato in questo compito a servizio di tutta la Chiesa. E’ bene farne tesoro, rileggendo il nostro stile di vita alla luce di questa ‘esortazione’ che coniuga santità e gioia. Si percepisce un tono di famiglia, a cominciare dalla data di pubblicazione: 19 Marzo, San Giuseppe, un santo che ha dedicato tutta la sua vita alla cura della famiglia di Gesù, con uno spirito di servizio che inaugura una nuova maschilità, libera dagli attributi del dominio: Giuseppe ci viene presentato come mite, casto, silenzioso.

Un grande dono di cui non rendiamo grazie abbastanza, è la fede, quale ci è stata testimoniata da “nostra stessa madre, una nonna o altre persone vicine” (GE, 3) e che accomuna tutti i figli di Dio. Non è bene attribuire la santità solo o prevalentemente a vescovi, sacerdoti, religiosi. “Lo Spirito Santo riversa santità dappertutto, nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere”. Tale spirito evangelico rifugge dall’intellettualismo di chi pretende di approcciare la fede con l’intelligenza oppure punta tutto sulla volontà (volontarismo). Ciò che importa è fare spazio alle ispirazioni, che attimo dopo attimo, vengono alla nostra mente dall’alto e ci fanno riconoscere: “qual è quella parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al mondo con la nostra vita” (24).

La famiglia in qualche modo ci ‘costringe’ ad esercitare tutte le virtù. a “dispensare fruttuosamente ciò che si possiede e che si è ricevuto proprio perché fosse dispensato” (46).
Per favorire l’armonia impariamo a distaccarci da oggetti, persone e progetti, facendo nostro l’atteggiamento raccomandato da Sant’Ignazio di Loyola (indifferentia ad omnia): “Non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l’onore che il disonore, più la vita lunga che quella breve” (69).

“La santificazione è un cammino comunitario”. Perciò Papa Francesco sottolinea che “In varie occasioni la Chiesa ha canonizzato intere comunità… ci sono molte coppie di sposi sante, in cui ognuno dei coniugi è stato strumento di santificazione dell’altro. Vivere e lavorare con altri è senza dubbio una via di crescita spirituale” (141). Egli indica San Benedetto e la sorella Scolastica, Sant’Agostino e la mamma Monica per dimostrare che il legame familiare non è di ostacolo, anzi può esaltare quello spirituale. Per i nostri Maria e Luigi, tutto era importante se fatto nell’amore. Essi davano valore ad ogni attimo della giornata: “La vita comunitaria in famiglia, in parrocchia, nella comunità religiosa… è fatta di tanti piccoli dettagli quotidiani. Questo capitava nella comunità santa che formarono Gesù,Maria e Giuseppe dove è rispecchiata in modo paradigmatico la bellezza della vita trinitaria.

Ed è anche ciò che succedeva nella vita comunitaria che Gesù condusse con i suoi discepoli e la gente semplice del popolo” (143).

In famiglia la cura dell’altro non è meno importante della preghiera. Significativo l’episodio, che Papa Francesco ama ricordare di Teresina 2 : “Una sera d’inverno compivo come al solito il mio piccolo servizio… ad un tratto udii in lontananza il suono armonioso di uno strumento musicale: allora mi immaginai un salone ben illuminato tutto splendente di ori, ragazze elegantemente vestite che si facevano a vicenda complimenti e convenevoli mondani, poi il mio sguardo cadde sulla povera malata che sostenevo: invece di una melodia udivo ogni tanto i suoi gemiti lamentosi… Non posso esprimere ciò che accadde nella mia anima, quello
che so è che il Signore la illuminò con i raggi della verità che superano talmente lo splendore tenebroso delle feste della terra, che non potevo credere alla mia felicità” (145).

A fronte di questa ferialità “Alcuni, per pregiudizi spiritualisti, pensano che la preghiera dovrebbe essere una pura contemplazione di Dio, senza distrazioni, come se i nomi e i volti dei fratelli fossero un disturbo da evitare…” (154). “Potremmo pensare che diamo gloria a Dio solo con il culto e la preghiera, o unicamente osservando alcune norme etiche … dimentichiamo che il criterio per valutare la nostra vita è anzitutto ciò che abbiamo fatto agli altri. La preghiera è preziosa se alimenta una donazione quotidiana” (104) e dunque se fa vedere in ogni prossimo il volto di Dio. Ciò vale specialmente per quelli che siamo tentati di vedere come un “fagotto… un imprevisto che intralcia, un delinquente ozioso, un ostacolo sul mio cammino, un pungiglione molesto per la mia coscienza, un problema che devono risolvere i politici, e forse anche un’immondizia che sporca lo spazio pubblico” (98). Al contrario “con gli scarti di questa umanità vulnerabile alla fine del tempo il Signore plasmerà
la sua ultima opera d’arte” (61).

“Non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro… ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio… Forse che lo Spirito Santo può inviarci a compiere una missione e nello stesso tempo chiederci di fuggire da essa, o che evitiamo di donarci totalmente per preservare la pace interiore? Tutto… entra a far parte del cammino di santificazione” (26-27).
“Sei sposato? Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa” (14). Se la preghiera non può essere una fuga dall’altro, tuttavia ogni comunità, famiglia o istituto religioso, si rafforza se si fanno tacere di tanto in tanto le altre voci e si dà spazio alla preghiera che fa risuonare nel silenzio la voce di Dio che con la sua Grazia ci fa sentire costantemente e immeritatamente amati.

La pazienza si coniuga con l’intelligenza creativa, alla ricerca della propria originalità nel vivere il Vangelo, giacché ciascuno riflette un aspetto specifico delle parole di Gesù. Non si dovrebbero imitare in tutto e sempre dei modelli che ci appaiono perfetti e copiare i santi, perché “la vita divina si comunica ad alcuni in un modo e ad altri in un altro”. Del resto “Non tutto quello che dice un santo è pienamente fedele al Vangelo, non tutto quello che fa è autentico e perfetto. Ciò che bisogna contemplare è l’insieme della sua vita” (22).

Generalmente non si pensa che la santità si abbini con l’umorismo, di cui abbiamo tanto bisogno per rallegrare i momenti dei pasti, dello svago, del racconto delle esperienze e per sbollentare certe tensioni e far spuntare il sorriso che sembrava scomparso. “Il malumore non è un segno di santità” (126), come pure la tristezza di chi si chiude in sé ed è incapace di gioire dei doni di Dio. Un santo si riconosce anche dalla sua capacità di sorridere. “Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza” (122). Al contrario Papa Francesco ci mette in guardia dal Maligno ingannatore che avvelena la vita “con l’odio, la tristezza, l’invidia, i vizi. E così, mentre riduciamo le difese, lui ne approfitta per distruggere la nostra vita, le nostre famiglia e le nostre comunità” (161).

“Figlio… trattati bene… Non privarti di un giorno felice” (Sir 14, 11.14). “Nel giorno lieto sta’ allegro… Dio ha creato gli esseri umani retti, ma essi vanno in cerca di infinite complicazioni” (Qo 7, 14,29). Famosa la preghiera di San Tommaso Moro: “Dammi Signore, una buona digestione, e anche qualcosa da digerire. Dammi la salute del corpo, con il buon umore necessario per mantenerla… Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa tanto ingombrante che si chiama ‘io’. Dammi Signore il senso dell’umorismo. Fammi la grazia di capire gli scherzi, perché abbia nella vita un po’ di gioia e possa comunicarla agli altri. Così sia”.

Ciascuno dovrebbe contribuire ad accendere la gioia, evitando lo “spirito inibito, triste, acido, malinconico” di chi non sa guardare con misericordiosa tenerezza alle
manchevolezze degli altri. La famiglia non è un paradiso in terra; richiede di non arrendersi al negativo e lottare contro i rischi ricorrenti: “l’ansietà nervosa e violenta che ci disperde e debilita, la negatività e la tristezza, l’accidia comoda, consumista ed egoista, l’individualismo e tante forme di falsa spiritualità” (111).
Un’ulteriore gradita e inaspettata pennellata Francesco la dà a proposito di una ‘sana cultura dell’ozio’. Ovviamente non si tratta di promuovere lo svago superficiale ma di concedersi il tempo da passare allegramente con gli altri (nota 29 del par. 30). Il tempo libero va valorizzato vivendolo nella comunione fraterna. La carità non è una “ideologia” (che trasformerebbe il Vangelo in una ONG) e neanche va identificata con forme di gnosticismo e pelagianesimo, ossia con “l’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa… In tutto ciò alcuni cristiani spendono il loro tempo invece di lasciarsi condurre dallo Spirito sulla via dell’amore, invece di appassionarsi per comunicare la bellezza del Vangelo e di cercare i lontani nelle immense moltitudini assetate di Cristo. Molte volte, contro l’impulso dello Spirito, la vita della Chiesa si trasforma in un pezzo da museo o in un possesso di pochi… si riduce e si reprime il Vangelo togliendogli la sua affascinante semplicità”.

Nei momenti di tensione in famiglia, per mantenere l’unità dobbiamo calibrare le parole, i silenzi, le azioni valutando le possibili reazioni del marito, della moglie, dei figli. L’unità tuttavia non si alimenta “appiattendosi sulle idee e i comportamenti degli altri, anzi esprimendo con franchezza il proprio punto di vista, senza irrigidirsi sulle proprie idee e rispettando quelle di tutti. Anche quando si difende la propria fede… bisogna farlo con mitezza… Nella Chiesa tante volte abbiamo sbagliato per non aver accolto questo appello della Parola divina”(73). Tali indicazioni ci sono indispensabili per vivere in contesti ormai sempre meno evangelizzati, in cui abbondano separazioni, divorzi, fughe dei figli, suicidi, femminicidi. Egli scrive che “Non è bene complicare il Vangelo e farsi schiavi di schemi” sottomettendo “la vita della Grazia a certe strutture umane” 5 . Ci ricorda la raccomandazione di S. Tommaso alla moderazione nell’aggiungere alla linearità del Vangelo precetti che
renderebbero “gravosa la vita ai fedeli”. Al centro deve sempre stare la carità. Gesù infatti “non ci consegna due formule o due precetti in più. Ci consegna due volti o meglio uno solo, quello di Dio che si riflette in molti” (61).

L’invocata flessibilità nasce dal rispetto della unicità delle storie di vita: “Non si tratta di applicare ricette o di ripetere il passato, poiché le medesime soluzioni non sono valide in tutte le circostanze e quello che era utile in un contesto può non esserlo in un altro. Il discernimento degli spiriti ci libera dalla rigidità, che non ha spazio davanti al perenne oggi del risorto. Unicamente lo Spirito sa penetrare nelle pieghe più oscure della realtà e tenere conto di tutte le sue sfumature, perché emerga con altra luce la novità del Vangelo” (173). E’ normale avere dubbi e mancare di risposte alle domande che si affollano. Staremmo del resto a disagio in una cristianesimo senza mistero. Vi sono problemi che devono restare senza riposte, perché Dio ci supera infinitamente. “Voglio ricordare che nella Chiesa convivono legittimamente modi diversi di interpretare molti aspetti della dottrina e della vita cristiana che nella loro varietà ‘aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola’” (43).

Già in Vita consacrata (1996) il Papa aveva scritto che la dottrina: “non è un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi e le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi ci interrogano” (44). Con tutti dobbiamo dialogare guardando con tenerezza ai limiti nostri e altrui. “Tutti noi siamo un esercito di perdonati. Se… affiniamo l’udito probabilmente sentiremo qualche volta questo rimprovero: ‘Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno così come io ho avuto pietà di te?”, Mt 18,33” (82). Alimentiamo la gioia facendoci operatori di pace, non come quiete piatta: inevitabilmente tra le persone si accende qualche litigio. Si tratta di “trasformare (i conflitti) in un anello di collegamento di un nuovo processo” (89).

La pace si costruisce bene-dicendo: vi è una violenza verbale che esercitiamo quando ascoltiamo indifferenti “diffamazione e calunnia” senza rispetto per il buon nome, lasciando che si distrugga “l’immagine altrui senza pietà… Il santo non spreca le sue energie lamentandosi degli errori altrui, è capace di fare silenzio davanti ai difetti dei fratelli… perché … li considera ‘superiori a se stesso… Non ci fa bene guardare dall’alto in basso, assumere il ruolo di giudici spietati, considerare gli altri come indegni e pretendere continuamente di dare lezioni. Questa è una sottile forma di violenza’” (115-16-17). “Quando sento qualcosa su qualcuno e vado da un altro e glielo dico; e magari faccio una seconda versione un po’ più ampia e la diffondo. E se riesco a fare più danno, sembra che mi procuri più soddisfazione. Il mondo delle dicerie, fatto di gente che si dedica a criticare e distruggere, non costruisce la pace. Questa gente è piuttosto nemica della pace e in nessun modo beata” (87).
La gioia si sposa con l’umiltà e con il riconoscimento realistico delle fragilità, in modo da: “fare quello che puoi e chiedere quello che non puoi”, come sottolinea
Sant’Agostino. S’impara subendo umiliazioni, sin da piccoli. “L’umiltà può radicarsi nel cuore solamente attraverso le umiliazioni… La santità che Dio dona alla sua Chiesa viene mediante l’umiliazione del suo Figlio: questa è la via… umiliazioni quotidiane di coloro che sopportano per salvare la propria famiglia, o evitano di parlare bene di se stessi e preferiscono lodare gli altri invece di gloriarsi, scelgono gli incarichi meno brillanti, e a volte preferiscono addirittura sopportare qualcosa di ingiusto per offrirlo al Signore” (118-119).
Giovanni della Croce raccomandava: “Rallegrati del bene degli altri come se fosse tuo, cercando sinceramente che questi siano preferiti a te in tutte le cose” (117).

Umili ma al contempo audaci: “Abbiamo bisogno della spinta dello Spirito per non essere paralizzati dalla paura e dal calcolo, per non abituarci a camminare solo entro confini sicuri. Ricordiamoci che ciò che rimane chiuso alla fine odora di umidità e ci fa ammalare… Dio non ha paura! Va sempre al di là dei nostri schemi e non teme le periferie… Chiediamo al Signore la grazia di non esitare quando lo Spirito esige da noi che facciamo un passo avanti; chiediamo il coraggio apostolico” (133-139). Qui troviamo una delle apparenti contraddizioni del Vangelo: “Si tratta di non avere limiti per la grandezza, per il meglio e il più bello, ma nello stesso tempo di concentrarsi sul piccolo, sull’impegno di oggi” (169).

Tutti i cristiani, istruiti o incolti, ricchi e poveri, chiedono il dono del discernimento, per riconoscere i segni della Grazia e non sprecare le ispirazioni. “Senza la sapienza del discernimento possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del momento” (167). I genitori ne hanno estremo bisogno per “intravedere il mistero del progetto unico e irripetibile che Dio ha per ciascuno e che si realizza in mezzo ai più svariati contesti e limiti… E’ in gioco il senso della mia vita davanti al Padre… non basta che tutto vada bene, che tutto sia tranquillo. Può essere che Dio ci stia offrendo qualcosa di più e nella
nostra pigra distrazione non lo riconosciamo” (170-1). Il discernimento ci fa vedere lontano e attendere i tempi di Dio che “non sono mai i nostri. Lui non fa’scendere fuoco sugli infedeli’ né permette agli zelanti di ‘raccogliere la zizzania’… la felicità è paradossale e ci regala le migliori esperienze quando accettiamo quella logica misteriosa che non è di questo mondo… Colui che diede tutto dà anche tutto e non vuole entrare in noi per mutilare o indebolire, ma per dare pienezza” (174-175).

E’ bene ricordarsi di non pretendere di essere perfetti e che gli altri lo siano. Dobbiamo mettere in conto che anche tra persone che si vogliono bene, ci si ferisce prima o poi. Ciascuno deve esercitarsi nella pazienza verso il coniuge, i figli, se stessi, non alimentare una fiduciosa attesa di cambiamento. I tempi per maturare sono diversi e “la Grazia agisce storicamente… ci prende e ci trasforma in modo progressivo. Perciò, se rifiutiamo questa modalità storica progressiva, di fatto possiamo arrivare a negarla e bloccarla, anche se con le nostre parole la esaltiamo” (50). La “santità cu ci invita Papa Francesco è quella della porta accanto”, della “classe media” (GE, 6-7), flessibilmente a misura di ogni persona. La si può scoprire negli ambienti meno esplicitamente ‘sacri’, anche in persone fuori dalla Chiesa cattolica (GE, 9). Tutti sono chiamati a vivere la vita ordinaria in modo straordinario.

Una speciale beatitudine di Gesù conferma la santità: “Beati i perseguitati”. Il mondo non vuole piangere… Si spendono molte energie per scappare dalle situazioni in cui si fa presente la sofferenza, credendo sia possibile dissimulare la realtà, dove mai, mai può mancare la croce” (75). Bisogna sapere che se ci si allontana dalla mediocrità e con la propria vita si mette in discussione la società si dà fastidio. Vi può essere persecuzione “in maniera cruenta, come tanti martiri contemporanei, o in modo più sottile, attraverso calunnie e falsità… scherni che tentano di sfigurare la nostra fede e di farci passare per persone ridicole” (94). Siamo beati se nonostante le avversità riusciamo a conservare la pace. A. Con Papa Francesco chiediamo la gioia per le nostre famiglie a Maria: “Lei non
accetta che quando cadiamo rimaniamo a terra e a volte ci porta in braccio senza giudicarci. Conversare con lei ci consola, ci libera e ci santifica. La madre non ha bisogno di tante parole, non le serve che ci sforziamo troppo per spiegarle quello che ci succede. Basta sussurrare ancora e ancora ‘Ave Maria’” (176).